“Immobile all’ombra di un salice, è il pugnale celato al fianco del vecchio bandito.”

J. Renard – Histoires naturelles – 1896

IL LUCCIO DELLA STORGA

Era una ben strana storia che risale ai tempi della guerra; è una ben strana vicenda che è riaffiorata per caso parlando lungo un sentiero di montagna dove l’acqua parlante si raggruppa e scende a valle, riempiendo i crepacci, gli anfratti bui, le faglie delle montagne e della storia.

Era il tempo della guerra e uomini e donne odiavano uomini e donne fino a desiderarne la morte. Fin dal primo mattino, dopo aver sognato la vittoria, gli uomini e le donne si alzavano e come lavoro si preparavano ad odiare. Solo il paesaggio conservava intatta la sua immagine, il suo essere semplicemente se stesso. Non lontano dall’ospedale psichiatrico di Treviso, detto il Sant’Artemio, lungo i corsi d’acqua di risorgiva che ne segnavano il confine con i campi coltivati dagli stessi ospiti del manicomio, trovavano spesso rifugio disertori, sbandati, uomini e donne che avevano perduto tutto, anche la ragione. Era una bosco ripario fitto di querce, ontani neri e salici a cingere d’assedio benevolo le acque, come per proteggerle in un abbraccio. Non lontano da quel luogo, i bagliori delle bombe, dei proiettili traccianti illuminava il cielo di Treviso. Gli scoiattoli si rintanavano nei loro rifugi, le volpi e le faine, le donnole e le infinite altre presenze del piccolo bosco sapevano come proteggersi. Gli uomini e le donne di Sant’Artemio no. Spesso incapaci di capire la realtà o forse di confonderla con una realtà che apparteneva solo a loro, vagavano in cerca di una sigaretta o semplicemente di due chiacchiere con qualcuno, di un briciolo di compagnia… o di amore per l’intera tenuta del Sant’Artemio, tenuta di ben 70 ha. di campi e boschi.

Alcuni di loro accudivano le mucche e con esse parlavano, traducendo dalla lingua degli umani la bellezza dei pruni fioriti, la serenità e quiete dei campi rispetto all’orrore della guerra, al fuoco ed al sangue versati… Era alla Storga e lungo il Piavon una quiete che rasserenava, che donava pace anche agli spiriti più irsuti e spinosi o a quelli più cupi e pensierosi; era alla Storga un’aria, un canto d’uccelli che apparteneva allo stesso tempo ad un lontano passato tanto quanto al presente, ai suoi profumi e colori, tanto quanto all’orizzonte di quello che ci aspettava. Tanto l’acqua scorre, su alvei o rovine, su macerie o ampie golene, l’acqua scorre… e l’acqua della Storga scorre come argento, come sangue limpido nelle vene del bosco e dei campi che la circondano, sposa felice e prolifica del compagno Piavon, che la incontra e la bacia a metà circa del suo apparentemente corto percorso ed in lei si fonde facendo qual cosa di più grande e importante rispetto all’esistenza di ogni singolo, di ogni amante…

Ma bando alle ciance… durante la guerra la vita era dura. Si mangiava anche l’erba medica rubandola alle mucche che muuuggivano di rabbia per il poco cibo che rimaneva loro. Spesso le suore dell’ospedale rinunciavano al loro magro rancio per donarlo agli ospiti dell’ospedale che erano perennemente affamati… capitava spesso che alcune persone sbandate, come già detto, si confondessero con gli ospiti accreditati del Sant’Artemio pur di ricevere una minestra di fagioli o qualcos’altro purché calda e insieme ad altri…

Fu così che una brutta notte senza luna, un gruppo di dieci donne e otto uomini tutti ospiti dell’Ospedale, rimanesse fino a tardi sui campi per raccogliere cavoli e radicchi, finocchi e gli ultimi peperoni richiesti per la cena con il Prefetto ed il Comandante in Capo; richiesti da chi garantiva a tutti la possibilità di rimanere in quell’ospedale così speciale perché aveva una delle sue sale operatorie nel bosco, una della sue terapie era respirare l’aria che arrivava dall’acqua di risorgiva, dagli alberi e dai campi coltivati. Ma quella notte, prima del tempo, la luce si oscurò, fu buio pesto e le donne allarmate presero a tremare, gli uomini maldestri cedettero alla paura e fu buio e pena e terrore.

In fondo, erano a poche centinaia di metri dall’ingresso del cancello che delimitava lo spazio selvatico da quello umanizzato, dalle camerate bianche e isolate acusticamente; dai tavoli di marmo ancorati al pavimento; poche centinaia di metri… da quale libertà? Da quale sicurezza? Dai medici, nei camici freddi, anche se umani chiusi in una crisalide che non schiude farfalle ma siringhe e ricette, pillole e segregazioni forzate per quale domani? Il nostro gruppo si muoveva tremante lungo il Piavon prima e poi la Storga… erano dal lato opposto del fiume rispetto a quello dell’ingresso all’ospedale… il buio copriva ogni cosa come una coperta; recentemente c’era stato un nubifragio che aveva abbattuto tanti vecchi alberi, alcun pioppi di almeno 50 anni, anche ligustri e addirittura una grande quercia stesa a terra, come un grande dinosauro.

I nostri proseguivano con crescente disperazione; i richiami notturni degli strigidi ghiacciavano l’aria e le vene; parevano le voci dei fantasmi della Storga. Apparve all’improvviso la sagoma candida e spettrale di un Barbagianni.

Questi poveri sventurati non sapevano dove andare, la luna aveva deciso di non aiutare quella sera i malcapitati viandanti… e fu così che, prossimi alla Storga, proprio vicino a polle di risorgiva profonde e pericolo, composte di melme e avvinghianti radici, comparisse un luccio di dimensioni inaudite.

Era lungo forse due metri? Di più? Chi lo sa? Il racconto dei presenti è confuso e contraddittorio; erano infreddoliti e spaventati del resto… il luccio li seguiva costantemente parallelo alla sponda, con l’occhio vitreo sfavillante, talvolta spalancando l’enorme bocca appiattita e sfoderando le sue fauci taglienti. La paura aumentava… i poveri dispersi giunsero a metà del percorso della Storga, oltre non si poteva andare a causa di uno sbarramento di filo spinato e guardie armate che avrebbero sparato a chiunque, comunque. Dunque? Erano dall’altra parte, lontani dalla salvezza appena qualche decina di metri… ma fatti di acqua.

Erano caduti molti alberi, alcuni dei quali ostruivano il passaggio lungo il sentiero; un grande pioppo nero aveva ceduto le forze sotto la spinta del vento ed era crollato verso il lato opposto al percorso, sul fiume.

Allora accadde una fatto misterioso di cui ancora si parla e tale per cui nessuno, NESSUNO osa catturare un luccio della Storga: il grandissimo luccio che accompagnava apparentemente con intenzioni fameliche il gruppo, improvvisamente si illuminò… sì, dal suo grande e lungo ventre si sprigionò un fascio omogeneo di luce bianca, come quella dei neon, che illuminò tutto il fondo del fiume, lasciandone intuire la profondità, ma anche gettando una luce costante e sicura sulla sponda dove camminavano i dispersi del Sant’Artemio sempre più infreddoliti ed impauriti.

La luce del pesce attirava altri abitanti del luogo: uscirono nitticore, civette e gufi, pesci insonnoliti e sbadiglianti rane e rospi; sinuose natrici e gallinelle d’acqua e tanti altri ospiti del fiume. La luce del luccio si fermò illuminando in tutta la sua lunghezza il grande pioppo caduto congiungendo le due rive del fiume, e con coraggio ed uno strano sorriso, un sorriso complice degli animali della Storga, i dispersi attraversarono il corso d’acqua, in alcuni tratti profondo e gelido, in tutta sicurezza, illuminati e protetti dal grande luccio luminoso che, una volta messi in salvo i dispersi, spense la sua luce e tornò nel folto dei misteri della Storga.